Export - SACE: trend, settori e Paesi promettenti

 

Export - Photo credit: JAXPORT via Foter.com / CC BY-NCPrevista per le vendite italiane all'estero una crescita del 4% all'anno nel periodo 2017-2020.

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Nonostante la preoccupazione circa il protezionismo e la "persistente incertezza" del comparto commerciale, per il triennio 2017-2020 l'ultimo rapporto di SACE (Gruppo CDP) "Export Unchained. Dove la crescita attende il Made in Italy" prevede una crescita dell'export italiano a un tasso medio annuo del 4% per i prossimi quattro anni. 

Complice la ripresa degli investimenti in alcuni mercati emergenti, la neutralizzazione del ciclo avverso del petrolio e il deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro, l'export italiano - è una delle conclusioni che emerge dal rapporto - si prepara a un cambio di marcia sostanziale [...] fino a raggiungere nel 2020 il valore di 489 miliardi di euro".

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2017: trend per aree geografiche

Nel corso del 2017, secondo SACE contribuiranno significativamente alle vendite italiane all'estero i tradizionali mercati europei, nordamericani e asiatici. In particolare, i risultati migliori si attendono in:

  • Nord America (+4,9%), soprattutto grazie alla spinta degli Stati Uniti,
  • Asia (+4,6%), dove Cina, India e Indonesia promettono interessanti opportunità per le aziende esportarici del Made in Italy.

Buone le prospettive per le esportazioni italiane anche in aree come:

  • Medio Oriente,
  • Nord Africa,
  • America Latina.

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Made in Italy: mercati a maggior potenziale 

In base agli indicatori di rischio, alla crescita dell’economia e della domanda, alle dinamiche dell’export italiano negli ultimi anni e al posizionamento competitivo rispetto ai nostri tradizionali concorrenti, la società del gruppo CDP ha identificato 15 mercati ad alto potenziale per le esportazioni e gli investimenti italiani:

  • Arabia Saudita,
  • Brasile,
  • Cina,
  • Emirati Arabi Uniti,
  • India,
  • Indonesia,
  • Kenya,
  • Messico,
  • Perù,
  • Qatar,
  • Repubblica Ceca,
  • Russia,
  • Stati Uniti,
  • Sudafrica,
  • Vietnam.

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Settori: in cosa investire

Tra i settori del Made in Italy a maggiore "vocazione internazionale", il rapporto di SACE seleziona:

  • la chimica, per cui si prevede il tasso di crescita più sostenuto nelle vendite estere (6,3% nel 2017 e 5,8% nel 2018-2020),
  • la meccanica strumentale, che - spiega il report - con 85 miliardi di euro nel 2016 è il primo settore per l’export italiano e "riuscirà a mantenere un vantaggio competitivo" anche nei prossimi anni,
  • i mezzi di trasporto, per cui è attesa una "crescita estera del 5% nell’anno in corso e del 5,4% nel periodo 2018-2020".

Buone prospettive sono previste anche per i comparti del Made in Italy tradizionale, tra cui spicca l’agroalimentare.

Estratto dal rapporto: IDE. Non ricchezza persa ma complemento all’export

Negli ultimi decenni, i processi produttivi hanno assunto un crescente assetto internazionale, con le attività e le fasi di produzione sempre più frammentate e dislocate su geografie diverse. Molte aziende hanno scelto di spostare all’estero parti dei propri processi che prima erano svolti in casa, per avvantaggiarsi di risparmi di costo o per beneficiare di nuova domanda. Gli Investimenti Diretti Esteri (IDE) sono stati più volte messi sotto accusa nel dibattito pubblico, ravvisandone una possibile causa dell’impoverimento dell’economia del Paese di origine per effetto di una presunta “perdita” di attività, a beneficio dei Paesi di destinazione, se non rimpiazzata da altra produzione locale.

In generale, IDE ed esportazioni interagiscono positivamente nello stimolare la crescita del Paese di origine. Dal punto di vista del Paese che investe, gli IDE possono essere visti come sostituti del commercio in quanto le vendite locali nei mercati esteri rimpiazzano l’export, “danneggiando” l’industria domestica. È anche vero, però, che IDE e commercio possono risultare complementari nella misura in cui gli investimenti all’estero generano maggiore competitività nei mercati oltreconfine, creano domanda per altri prodotti lungo la catena di fornitura, come beni intermedi e servizi per la realizzazione del prodotto finale, stabiliscono una piattaforma logistica di accesso ai mercati limitrofi, oppure modificano le abitudini di consumo – e di conseguenza la domanda – del Paese di destinazione a favore dei prodotti (anche di altre industrie) del Paese di origine. A conferma dell’effetto importante di questo secondo elemento, la maggior parte degli studi evidenzia una correlazione positiva tra gli IDE in uscita e le esportazioni del Paese di origine dell’investitore48: l’effetto “creazione di export” più che compensa l’effetto “rimpiazzo di export”. L’Ocse, confermando la complementarietà, ha calcolato il contributo che l’attività di investimento diretto all’estero produce sulle esportazioni, stimando un coefficiente di impatto nel lungo termine pari a 2, ovvero: un investimento genera nel tempo esportazioni, per il Paese che lo effettua, pari al doppio del valore dell’investimento. Altre ricerche hanno stimato coefficienti inferiori; si tratta tuttavia di studi più limitati perché condotti su singoli Paesi (ad esempio, la Corea con coefficiente pari a 1,1 e la Svezia con coefficiente pari a 1,63).

La letteratura esistente è largamente concorde nel verificare che l’impatto degli IDE sulle esportazioni vari a seconda del motivo e del modo di investire. Ad esempio, alcune analisi hanno rilevato che gli IDE “offensivi”, come l’integrazione verticale e l’espansione orizzontale volontaria, che hanno l’obiettivo primario di aumentare le quote di mercato o conquistare nuovi mercati, possono generare export aggiuntivo di beni intermedi e prodotti finiti per la casa-madre. Al contrario, gli IDE “difensivi”, come l’espansione orizzontale non volontaria e la delocalizzazione, che hanno l’obiettivo primario di conservare le quote di mercato esistenti, tendono ad avere un effetto sostitutivo sull’export. Tuttavia, la distinzione tra IDE orizzontali e verticali è più teorica che reale, poiché la maggior parte degli investimenti è configurabile come un’integrazione complessa di molteplici strategie. Nonostante una prevalenza dell’aspetto di complementarietà, che significa in generale che un Paese esporta di più verso le destinazioni in cui investe di più, la forza e il segno del legame di causalità tra IDE ed export dipende da diverse variabili, talvolta omesse dalle statistiche. Queste variabili riguardano tipicamente le scelte politiche del Paese ospitante in tema di apertura del commercio e degli investimenti.

L’argomento è di particolare rilevanza, considerata la recente tendenza di numerosi governi a porsi con sospetto nei confronti delle relazioni economiche con l’estero. Il calo sostenuto nei flussi globali di IDE (1.520 miliardi di dollari nel 2016, -14% rispetto al 2015) ha diffuso l’idea che anche il “protezionismo degli investimenti”, oltre a quello del commercio, sia in aumento.

Le forme sono svariate: da nuove regole imposte sugli IDE in entrata al rafforzamento delle regole esistenti, da meccanismi di approvazione più stringenti, all’estensione del concetto di industrie nazionali strategiche e così via; talvolta anche solo le intenzioni di un Governo o la paura di una reazione negativa da parte delle comunità locali possono scoraggiare l’investimento.

Rapporto Export 2017

Photo credit: JAXPORT via Foter.com / CC BY-NC

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